Miranda

Miranda è lì davanti a me, con uno sguardo smarrito. In quel volto antico scorgo un sorriso puerile, quasi timido; mi osserva e poi quasi scusandosi mi chiede che ci faccio lì, nella sua stanza d’albergo. Mi spiega con tutta la delicatezza che possiede che “No, non si fa così. Quando io chiedo una stanza non penso sia giusto che si debba stare in condivisione con un’altra famiglia. Mica ho pagato per questo!”, esclama un filo infastidita. Io non ho una risposta da darle mentre mi accingo a disfare la valigia e a disporre gli indumenti in maniera ordinata e facilmente reperibile per le infermiere. Miranda aspetta la figlia per riempire di luce le sue giornate. Una figlia che ha un permesso speciale per accudire in un tempo limitato la madre che sta in ospedale; una figlia che Miranda aspetta fedelmente ogni giorno. Una figlia, la minore di due, frutto di un’unione felice terminata troppo presto con la morte di un marito ancora troppo giovane e in forze per far caso ai sintomi insidiosi di una malattia mortale. Una vita sacrificata la sua, quella di una giovane madre vedova con due figlie da crescere e una casa costruita prima della tragedia, nella quale in ogni momento si ritrova a vivere gli anni gioiosi e pregni del profumo degli agrumi maturi nel sole breve delle serate novembrine. Cucina, accudisce la madre anziana, spazza il suo cortile dove il vento ha ammassato in grossi cumuli le foglie del mandarino, proprio lì ad ostruire l’uscio. La sua è una vita semplice, “povera” la definisce lei. Ma Miranda ha dentro una ricchezza incredibile e nei giorni che trascorro con lei scopro che questa donna, il cui volto ha ancora qualche traccia della bellezza passata, è stata una madre e figlia esemplare. Forte e fiera ha cresciuto le sue figlie con dedizione e preso in casa con sé la sua vecchia genitrice per accudirla come un infante fino all’ultimo respiro. Ora Miranda sta in un letto d’ospedale e a suo modo mi fa le coccole. Qualche mandarino della sua pianta che da sul cortile, una fetta di panettone fragrante che mi ripropongo di mangiare quando starò meglio. Un ictus ha reso la sua memoria ballerina e ha cancellato i suoi problemi di salute attuali. Ogni tanto ha qualche momento di lucidità e lamenta un dolore al fianco. Ho saputo che quando sono scesa giù in sala ad estirpare un altro pezzetto di me che il mostriciattolo potrebbe venire a rivendicare, lei ha percorso più volte il corridoio alla ricerca smaniosa della sua compagna di stanza. Si è rasserenata solo al mio rientro e quando ho aperto gli occhi, ancora intontita dall’anestesia e dalla morfina mi ha fatto uno dei suoi meravigliosi sorrisi di fanciulla. Il giorno successivo sono già in ripresa e lei a mio vedere è ben lucida e sembra aver capito dove si trova. Ad un tratto scorgo il suo sguardo farsi vigile e puntare in direzione del corridoio dove le infermiere affaccendate vanno avanti e indietro. Si volta e con un antico sentimento trattenuto, in trepidante attesa di una risposta affermativa mi apostrofa “Ma a te non vien voglia di uscire? Non vedi quante donne si apprestano a passeggiare verso la piazza” e ancora “son tutte belle eleganti, io vorrei andare a passeggio come loro”. E lì non so se sorridere o piangere, cara la mia Miranda, che in questa lunga settimana qualche volta ti ho coraggiosamente riportato davanti a questa realtà così amara e tante altre ho preferito incoraggiarti a raccontare le avventure dolci amare della tua lunga vita.

P.s. Stavolta vi ho raccontato di lei, una bellissima persona di ottant’anni dal cuore grande e il sorriso di fanciulla e ho tralasciato volutamente le mie avventure in ospedale e i relativi tecnicismi che erano assai meno gradevoli.

Annalisa

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